Contestualmente, il virus di questa fase iniziale non era da prendersi sul serio o perlomeno non con la consapevolezza che abbiamo maturato fino ad oggi.
La sintomatologia di mio padre era quindi riconducibile ad una normale influenza.
Nel corso di una settimana, la saturazione è diminuita in maniera importante ed è stato necessario il ricovero in ospedale.
All’inizio era tutto sotto controllo, ma due giorni dopo, una telefonata ai familiari ha comunicato uno stato aggravato della sua situazione, seguito da un ricovero d’urgenza in terapia intensiva.
La maggior parte dei pazienti con problemi di ossigenazione gravi deve affrontare l’intubazione tracheale per restare in vita.
Una manovra indispensabile, necessaria e normale anche per mio padre.
L’intubazione è durata mesi, un periodo molto lungo, è vero; ma nella sfortuna abbiamo avuto ancora la possibilità di poter sperare che andasse tutto bene.
Purtroppo per ogni soggetto che si aggrava, con condizioni particolari, riconosco con lucidità che esistono conseguenze spiacevoli, che arrivano in un secondo momento – il momento in cui solitamente dovremmo tutti tirare un sospiro di sollievo, ma mio padre ha riportato lesioni alla trachea e all’esofago (una fistola esofago-tracheale).
A questo punto, ho seguito personalmente la corsa del primario e dell’equipe, che ha curato per tutti questi mesi mio padre, alla ricerca di professionisti e ospedali in grado di poter risolvere questo problema. In uno di questi centri che all’inizio sembrava in grado di poter affrontare la situazione e dove era stato trasferito mio padre , dopo tre giorni, mi hanno contattata dicendomi che non c’era più nessuna possibilità di riuscita e dovevo prepararmi al peggio.
Non c’era più niente da fare, lui non avrebbe superato l’intervento e c’era solo da rassegnarsi.
Chi aveva seguito il caso sin dall’inizio però non si trovava d’accordo con questo ultimatum, perciò ha continuato a cercare un professionista che potesse eseguire l’intervento.
Ero preoccupata, perché ho seguito mio padre per molto tempo e il sollievo di cui parlavo prima non era ancora arrivato, e iniziavo a credere che forse non sarebbe mai arrivato.
Dopo altre procedure e accertamenti, ho incontrato il dott. Umberto Cariboni che ha forse intuito le mie sensazioni e mi ha detto: “Se non ci fosse nessuna possibilità di riuscita non farei carico del problema”.
Nonostante ciò, per credere davvero a queste parole ho dovuto ascoltarne altre, più importanti e liberatorie, come quelle che sono arrivate dopo l’operazione: “L’intervento è andato nel migliore dei modi”.
Ci sono stati istanti o attimi – un tempo indefinibile ma minuscolo – in cui ho creduto al peggio. Eppure, tutto ha un peso diverso quando una sola voce, quella che ce l’ha fatta, mi permette di individuare a stento la cicatrice sulla pelle di mio padre. Il percorso riabilitativo è lungo, è duro, ma mio padre sta vivendo sportivamente anche in questo caso e ci regala già ogni giorno qualche passo in avanti.
Posso dire che ora sta bene, ma sento di dover invece gridare che starà bene perché un medico, quel giorno, ha preso la sua equipe per mano e ha osato.
Ha deciso di affrontare un intervento molto rischioso e al limite, ma che era l’unica possibilità per mio papà: ha deciso e ha ridato la vita a un uomo.
Da piccoli pensavamo che i medici fossero supereroi, probabilmente loro direbbero che si tratta solo del loro dovere.
Oggi, da adulta dovrei davvero pensare che qualcuno non fa solo il suo dovere, ma continuerò a credere di aver incontrato un supereroe.”